Biografia di Luca Mentasti  
      Luca Mentasti nasce a Varese il 21 Aprile del 1975.   
Sin da piccolo tutto quello che poteva dar sfogo al suo bisogno di disegnare, colorare e dar forma alle sue 
personali idee ha sempre catalizzato il suo interesse ed è curioso notare come già dalle elementari prese 
contatto, sentendosi a suo agio, con il mondo della computer grafica, divertendosi a dipingere con uno dei 
primi home computer dotato di tavoletta grafica l’Atari 800XL.  
Seguendo così quella che è stata la sua spontanea inclinazione ed incoraggiato dal suo intuito, dopo le 
scuole dell’obbligo decise di frequentare il Liceo Artistico (Varese 1989‐1993) e successivamente la scuola di 
Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano 1994‐2000).   
Negli anni di formazione ha continuato a coltivare ed approfondire quelli che tutt’ora sono i suoi interessi 
per le arti visive. Dalla sua passione per il mondo dell’animazione e dei fumetti è nata una collaborazione 
che lo ha portato, con un gruppo di amici, alla realizzazione di alcune tavole a fumetti pubblicate su una 
rivista che si occupava di Animazione e Manga Giapponesi (1994 ‐ 1995) prima di partire per la il servizio 
militare svolto nel corpo degli Alpini.  
Nel corso dei suoi anni accademici si è avvicinato per la prima volta al mondo della fotografia, mezzo 
espressivo sì conosciuto, ma mai prima d’allora approfondito e sperimentato. Inutile dire che ne fu subito 
affascinato ed in qualche modo ossessionato pur avvertendo nei suoi scatti, una certa manchevolezza, una 
certa incompletezza che mai in quel periodo gli diedero piena soddisfazione. Gli unici scatti che in qualche 
modo lo appagarono, furono quelli dove il forte contrasto luminoso e il colore particolarmente acceso 
spadroneggiavano, facile quindi capire come fu il genere notturno quello che praticò con maggior passione.  
Al tempo, comunque, che cosa fosse quella sfuggevole mancanza non era ancora per lui del tutto 
afferrabile, non sapeva se cercarne la causa nell’alto costo che la fotografia (su pellicola) pretendeva e 
perciò nel limitatissimo uso e sperimentazione che ne poteva fare o se invece fosse più il limitato controllo 
sul suo sviluppo e sul processo di stampa a mortificarlo (escludendo il bianco e nero che però lo attirava 
ben poco).    
Fatto sta che gli ci volle molto tempo prima di poter comprenderne coscientemente il motivo che poi ha 
riscontrato come matrice comune anche in tutti gli altri mezzi espressivi usati per i suoi lavori. Ebbe così 
una più chiara visione e percezione di ciò che era ed è la sua particolarità, il suo segno espressivo. 
L’importanza che l’uso della luce e di riflesso del colore opera nei suoi lavori ad un livello quasi inconscio.  
Tornando agli anni di Brera, grazie al suo docente di St. dell’Arte ho avuto modo di partecipare nel 1997 ad 
una mostra collettiva intitolata “Lezioni per l’immaginario ‐ Omaggio ad Italo Calvino”, il cui tema era 
incentrato sulla rappresentazione di alcuni concetti tratti dal suo ultimo testo, Lezioni Americane.   
Le tre opere realizzate son state forse la prima ed inconsapevole prova di quella che è oggi la sua attuale 
ricerca e son stati i suoi primi sperimentali tentativi di collage, pittura astratta e simil materica.
  
Una forte influenza in quel periodo gli fu data del geniale e poliedrico artista Inglese Dave McKean la cui 
opera lo spinse ad investire tutti i suoi risparmi nell’acquisto di un nuovo computer (abbandonando a 
malincuore il mondo Amiga, ma questa è un’altra storia ☺) e portando così a definitivo compimento 
l’interesse che sin da bambino ebbe per la computer grafica.   
Dalla manipolazione di scansioni fotografiche e dalle prime sperimentazioni con la grafica vettoriale, il 
computer come mezzo espressivo e di lavoro catalizzò tutto il suo interesse è divenne per lungo tempo il 
suo strumento prediletto arrivando a sostituire ove possibile, quelli tradizionali.  In tutto questo entusiasmo 
la sua passione per la fotografia venne come congelata, ma mai dimenticata.  
Successivamente, influenzato dal corso di antropologia culturale del Prof. Riccardo Notte, prende forma la 
sua tesi “Definire la Scena, la pratica scenica dal teatro greco al 3d”, dove inizia a muoversi nel complesso 
ed affascinante universo della computer grafica 3d.  
Nel contempo, fa una fugace esperienza nel mondo del teatro come assistente di compagnia per il 
Palchetto Stage e alla fine degli studi, che coincise con l’arrivo del nuovo millennio, decide di proiettarsi nel 
mondo del lavoro e porre così fine alle sue ristrettezze economiche.   
Inizia così a svolgere l’attività di Grafico e Visual Designer presso una software house del varesotto e se 
quest’esperienza da un lato gli permette di approfondire e migliorare il suo lato tecnico, dall’altro lo porta 
ad un progressivo allontanamento dal mondo delle arti.  
Nel 2003, un primo timido riavvicinamento verso il mondo artistico, lo compie facendo confluire le 
conoscenze acquisite nel 3d con il suo rinnovato interesse per l’architettura che lo porta, con un suo caro 
amico, a dar vita all’avventura di neoLUX. Il loro obbiettivo era quello di portare anche in Italia una serie di 
servizi mirati alla visualizzazione architettonica foto realistica ed interattiva in un mercato che all’epoca era  
però ancora poco ricettivo e pronto.  
Infine con l’avvento delle macchine digitali, finalmente si riaccende in lui la passione per la fotografia che 
ora può realmente offrirgli quel controllo totale che prima gli era negato, svincolandolo da tutta quella 
serie di limiti che invece percepiva con la pellicola.   
Questa lento ricongiungimento con il mondo delle Arti visive, va all’unisono con il suo viver importanti 
esperienze affettive e di vita e subisce un’ulteriore accelerazione quando, un anno fa, decide di buttarsi in 
una nuova quanto incerta avventura lavorativa. Così scrollandosi di dosso il passato e vincendo le resistenze 
che sin lì l’avevano bloccato, ritrova il suo interesse per l’Arte.  In questo modo, quasi inconsciamente, la 
fotografia, l’Arte e i gli approfondimenti fatti sin ora sulla psicoanalisi, confluiscono in quello che è 
diventato nel corso dell’ultimo anno il suo percorso di ricerca.   
È da questi presupposti e da queste basi che nasce la sua indagine sulla luce che ora, in maniera più chiara e 
coerente, trova piena espressione nelle sue fotografie astratte, dove insieme ad suo un progressivo 
sviluppo stilistico, porta a lenta fermentazione anche la sua individuazione come persona e che pertanto 
deve esser visto come un continuo, costante e personalissimo work in progress. 
 
  
LUCE ALCHEMICA
  
“Non sono un fotografo della natura, ma della mia fantasia. Piuttosto che dare un’immagine convenzionale di un 
paesaggio, preferisco prendere il mio fazzoletto, torcerlo come voglio e fotografarlo come mi pare. Fotograferei 
un’idea piuttosto che un oggetto, e un sogno più che un’idea”.  
Man Ray
   
 
Le opere qui presentate sono solo un estratto ed una sintesi di quella che da un anno è diventata la mia 
ricerca artistica in ambito fotografico, ma che ancor prima nasce come un lento e tortuoso percorso verso 
quella che è la mia personale individuazione.   
Tralascio in questa breve presentazione, la descrizione dell’iter personale che ha fatto emergere in me 
questa forma di “Astrattismo Luminoso”, di “Light Painting” e del suo successivo e continuo 
approfondimento. Evito perciò di descrivere tutte quelle analogie di pensiero riscontrabili in alcuni artisti ed 
Avanguardie del ‘900, in particolare nella figura di Man Ray e nella Fotografia Inista.   
Mi concentrerò quindi nel descrivere il significato ed il valore personale che gli attribuisco, posto che si 
tratta di un continuo e mutevole work in progress come lo è del resto la mia vita.
   
 
Colloco l’inizio della mia ricerca in due tappe fondamentali:  
La prima è stata quella di prender piena coscienza della particolare sensibilità, attrazione e direi quasi 
ossessione che ho sempre avuto per luce e colori, specie per quelli molto saturi e contrastati e su come 
questa percezione si sia poi sempre riversata in maniera quasi automatica su tutti i mezzi grafico espressivi 
usati negli anni.   
La seconda tappa parte invece da una domanda banale che con la ripresa di alcuni miei interessi, ha iniziato 
ad assillarmi e che come me, ha tormentato sin dalla notte dei tempi molti altri illustri personaggi della 
storia. Da dove arriva la creatività? Perché si sente l’esigenza di fare e creare un qualcosa che non rientri in 
un bisogno materiale e o vitale per il nostro corpo? Perché facendo e fruendo dell’arte stessa proviamo 
piacere? Perché a volte scaturiscono spontaneamente in noi visioni o segni grafici? Cosa significano? 
Volendo rimaner strettamente legato al solo mondo delle Arti Visive e non volendo ovviamente citare tutte 
le numerose risposte che in ogni era e in ogni ambito ci si è dati, voglio qui citar brevemente quello che 
Kandinsky scrisse nello “Spirituale nell’arte”:
   
  
... l’opera scaturisce da una “necessità interiore”, da un fuoco che brucia dentro ogni artista e che è in qualche modo il 
garante dell’autenticità del “prodotto” arte, che si vuol distante e “originale” rispetto ad una società indirizzata verso 
un forte processo di massificazione...
   
 
Mi sembra perciò evidente come nell’opera di un artista intesa come la voleva esprimere Kandinsky, come 
la intendo anche io, si celi un significato molto profondo che trascende l’opera stessa ed il semplice valore 
commerciale ad essa attribuibile.   
Così nel riavvicinarmi al mondo dell’Arte e nel dettaglio, riaccostandomi alla Fotografia dopo anni di 
narcolessia, ho cercato di cogliere questa pulsione, questo fuoco ardente che mi nasceva dentro e mi 
trasportava quasi ipnoticamente verso lo scatto. Ho cercato di afferrare quel particolare momento in cui, 
ancor prima, sembrava fosse “l’oggetto‐soggetto” stesso ad attirarmi e a richiamarmi.  
Ho così ricercato il nesso per cui, in particolari momenti e situazioni, la mia mente razionale e l’intento 
“pratico‐oggettivo” alla base dello scatto, svanivano improvvisamente per proiettarmi in una dimensione 
dove non esisteva più la cognizione di spazio e tempo, dove esse perdevano ogni significato. Dove entravo 
in quella che definirei “Estasi Creativa”, tema di eterna discussione nella storia dell’arte,  in filosofia e anche 
in quei rami della “moderna” psicanalisi ad essa interessati.  
Qui voglio citare una frase del grande Henri Cartier Bresson che credo riesca ad esprimere molto meglio di 
me quanto detto: 
  
 
"Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che 
fugge, in quell´istante, la cattura dell´immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale. 
Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l´occhio e il cuore. 
Per me fotografare è un modo di capire che non differisce dalle altre forme di espressione visuale. E´ un grido, una 
liberazione. Non si tratta di affermare la propria originalità; è un modo di vivere".
   
 
Perciò è importante considerare gli scatti che qui presento, sotto quest’ottica, dove questo particolare 
momento è stato percepito in un’intensità certamente variabile ma molto partecipe.  
Vorrei anche sottolineare come questo stato di trance possa avvenire per tutti quegli individui che si 
dilettino in una qualsiasi pratica creativa e non solo per gli artisti in senso stretto (o per quelli che tali si 
considerano).   
Essi sono forse leggermente avvantaggiati per la maggior sensibilità sviluppata nei confronti della realtà e 
della propria esistenza, favoriti in maggior misura dall’attività pratica che compiono più o meno 
costantemente e che li pone così maggiormente esposti al contatto con “l’Estasi Creativa”. Non è detto 
però che questo li possa porre poi del tutto consapevolmente di fronte al risultato del loro furore creativo. 
Per me, ogni volta che una persona viene così sollecitata e trasportata in quella particolar dimensione 
estatica, sublimando l’energia di quello che sente e prova attraverso un mezzo espressivo, ottiene la 
possibilità di fissare un’istantanea della sua parte più interna e poco accessibile, aprire una comunicazione 
con il suo Sé, la sua Anima.   
Qui cito G.Bernard Shaw:
   
 
"Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso; e si usano le opere d´arte per guardare la propria Anima."
   
 
Da qui l’importanza che per me ha la rapidità del gesto e del mezzo espressivo usato per fermare 
quell’attimo. Esso nella sua purezza, dura troppo poco e la nostra parte razionale è subito pronta a 
riappropriarsi del corpo, del gesto e della mente. È subito pronta a farci tornare nella nostra dimensione 
abituale chiudendo quel canale di comunicazione e filtrando, contaminando così la percezione ed il segnale 
ricevuto poco prima.   
La fotografia vista in questi termini, proprio per la velocità e semplicità che offre, la vedo come uno 
strumento in più che al pari dell’analisi grafologica, dei “disegni dell’inconscio” (gli scarabocchi che 
facciamo soprappensiero), del sogno stesso o di tutte le altre pratiche che la psicoanalisi negli ultimi anni ha 
riscoperto, può dar una visione più concreta, più attendibile di quello che è il nostro substrato, di quello che 
siamo realmente o di quello che invece ignoriamo e nascondiamo a noi stessi grazie anche all’importante 
presenza del “vero” colore (cioè quello che la luce ci permette di vedere nell’ambiente che ci circonda e 
non riprodotto artificialmente) che su di noi e la nostra percezione, come ben sappiamo, ha un influsso 
molto potente.   
La fotografia è così in grado di generare una sorta di diario per immagini del nostro mondo e moto interno 
che può esser d’aiuto per acquisire una maggior consapevolezza e percezione di noi, aiutandoci a ristabilire 
quell’equilibrio tra “interno” ed “esterno” indispensabile per la nostra crescita e sviluppo, per quello che è il 
nostro Divenire o “banalizzando”, per la nostra felicità.   
Il pericolo ora di sfumare nel campo delle Arti Terapie o in alcuni rami della psicoanalisi c’è ed è una cosa 
che voglio evitare. Credo solo che vista l’estrema personalità ed individualità che deve avere la cosa, 
l’apertura verso questo tipo di Arte debba avvenire spontaneamente. Cioè solo quando si crei 
quell’apertura necessaria affinché si arrivi a percepirne l’importanza ed il significato e non perché imposto 
da un iter terapeutico o da altri fattori esterni.   
In quei casi, l’intervento benefico dell’arte, potrebbe esser poco utile o addirittura arrivar troppo tardi e 
causare nell’individuo l’impossibilità di prender comprensione del significato della sua stessa opera.  In tal 
senso mi vien in mente la vita di V. van Gogh dove il suo fare artistico, pur spontaneo, non è stato 
sufficiente a salvarlo dall’autodistruzione perché da lui evidentemente non compreso e da lui usato solo 
come sollievo momentaneo.  
 
Qui voglio prender a prestito una frase di Pietro Negri, dove si evidenzia come l’uso della fotocamera così 
fatto abbia in se un qualcosa di Alchemico, cioè come attraverso essa si possa trasmettere il linguaggio 
dell´anima creativa che ricerca nelle immagini il mezzo per comporre i simboli del processo di evoluzione 
della pulsione creativa in mente, coscienza e comprensione . La trasformazione della pulsione creativa , 
chiamata "bile rossa" dall´alchimia rinascimentale, avviene attraverso un preciso percorso di immagini nelle 
quali e´ possibile rintracciare i simboli cardine della trasformazione interiore. 
Certo il rischio di cader nel banale c’è, perché l’opera diviene così ancor più strettamente legata all’artista e 
l’artista per poter trasformare in significato la sua opera deve continuar a dedicarsi con impegno e rigore in 
quella che è la sua individuazione personale, senza mai perder il contatto sin lì acquisito e senza mai far 
spegnere quella fiamma che gli ha dato vita. Pena l’azzeramento del tutto, la perdita totale di significato 
dell’opera e dell’artista, con una banalizzazione e mortificazione stessa dell’Arte che nella migliore delle 
ipotesi, troverà nella successiva massificazione dell’opera il suo definitivo oblio.  
Mi auguro di esser stato abbastanza chiaro e mi rendo conto della complessità dell’argomento trattato i cui 
presupposti non son certo nuovi ma che fanno parte ancor prima che delle varie correnti artistiche, 
filosofiche, religiose e di pensiero, di Noi come razza. Di noi come società e del nostro bisogno di darci un 
senso per “evolverci”.  
 
Chiudo con un’altra bellissima frase di Jolande Jacobi analista Junghiana tra le prime a dedicarsi al profondo 
significato delle immagini del nostro inconscio:
   
 
“...l’anima vive nelle immagine e attraverso le immagini si esprime...” 
  
 
 
 
Luca Mentasti 
 
  
Note tecniche sulle foto: 
Tutte i lavori qui presentati son stati fatti con fotocamere digitali nel periodo che va dall’Ottobre 2006 al 
Novembre 2007 (modelli Canon PowerShot S40 ed EOS 350D) sottostando rigorosamente a quanto 
descritto sopra. Le immagini catturate, proprio per quanto detto, non hanno mai avuto bisogno di troppi 
scatti per emerger dal mio substrato, anzi nella maggior parte dei casi, per lo stesso soggetto, ne bastò uno. 
Il RAW nella fase di sviluppo è stato trattato solo per quel che concerne il contrasto e la saturazione dei 
colori (come si faceva in laboratorio con la pellicola).  
Nessun tipo di ritocco o alterazione digitale è stato operato sulle immagini! 
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